Con il recente rilascio di IOS9 , la discussione sull’ad-blocking – blocco della pubblicità, su web e soprattutto su mobile, ha generato nuovo interesse e un dibattito acceso.
Il principale fatto scatenante è stata l’uscita dell’ultima versione del sistema mobile di Apple, che include strumenti che consentono agli sviluppatori di creare software che blocca advertising (ad-blocking software). permettendo agli utenti mobile la medesima libertà di blocco della pubblicità che è già disponibile da anni agli utenti dei browser desktop (p. es. con AdBlock Plus and Ghostery).
Negli Stati Uniti, il 16% degli utenti Internet utilizza strumenti per bloccare la pubblicità, secondo un recente studio di PageFair e Adobe (nota: PageFair fornisce strumenti per editori e inserzionisti per superare il blocco dei ad blocker). La percentuale è più alta in Europa, e raggiunge il massimo in Polonia, dove il 39% della popolazione online usa strumenti che bloccano la pubblicità.
E’ probabile aspettarsi che questa percentuale salga nel prossimo anno, quando strumenti iOS come Crystal daranno agli utenti la capacità di rimuovere la pubblicità dalla navigazione mobile. Apple sostiene che ciò migliorerà di 4 volte la velocità di caricamento della pagina, ridurrà la quantità di dati da caricare, aumenterà la durata della batteria.
Il confronto sul blocco della pubblicità è andato avanti per settimane. Il creatore di Instapaper Marco Arment ha scritto a metà Agosto un post di riflessione se sia etico bloccare la pubblicità. Jean Louis-Gassée, investitore e ex-dirigente Apple, ha fornito un’analisi molto attenta da titolo “Life after content blocking” – “La vita dopo il blocco dei contenuti”. Casey Johnston ha scitto su Awl un lungo saggio dal titolo “Welcome to the block party” – Benvenuti alla festa del blocco”. E recentemente Nilay Patel, editore di Verge, è entrato sul tema dandoci il benvenuto nell’inferno di un web liberato dall’advertising. Sono tutti ottimi post, e raccomando a chiunque interessato sul tema di leggerseli tutti e quattro.
La storia, in sintesi, è che gli utenti si sono stancati. Stancati di vedere infiniti banner adv , insopportabili pop-up e video che partono automaticamente al caricamento di una pagina. Stancati di finestre che si prendono l’intero schermo e che ti costringono a trovare e clickare una piccola “x” prima che tu legga l’articolo che ti stavi apprestando a leggere. Stancati di cookie e widget che tracciano ogni movimento online, consentendo agli editori di advertising di pubblicare advertising sempre più mirato. Hai guardato un sito di intimo qualche settimana fa? Allora vedrai pubblicità di intimo ogni volta che andrai su Facebook o altri siti, grazie al software di retargeting che consente a chi vende intimo di passarti la loro pubblicità, basandosi sul fatto che una volta hai espresso un vago interesse sul loro prodotto.
Chi vende pubblicità costringe gli utenti a tutta questa robaccia on line per due semplici ragioni: funziona, e gli editori non hanno alternative.
Chi vende pubblicità usa probabilmente retargeting e advertising basato su dati utente perchè queste ultime sono tecniche che migliorano l’efficienza del proprio investimento pubblicitario. Queste pubblicità realmente fanno comprare agli utenti più intimo, e se il prezzo per ottenere questo fatto è mettere sempre più foto di mutande in un infinito numero di browser, beh, pazienza. I banner in realtà non sono un mezzo efficiente di advertising, ma c’è comunque una ridotta percentuale di utenti che li clicka, e una ancora più ridotta percentuale di utenti che va a comprare qualcosa, e quindi diventa solo una questione di numeri: pubblicando un numero sufficiente di banner pubblicitari, otterrai il ritorno desiderato dal tuo investimento.
Gli editori consentono la pubblicazione di queste pubblicità perchè necessitano entrate dagli inserzionisti. Per oltre 15 anni, il modello di business dominante per chi pubblica online (per non parlare di Google e Facebook) è stato l’advertising su web. Il problema è che grazie alla legge della domanda e dell’offerta, il valore dell’advertising online si è drammaticamente ridotto negli ultimi 15 anni. L’advertising è venduto a impression, il numero di volte che gli utenti l’hanno visto (o si assume che abbia visto); man mano che l’uso del web si è diffuso, gli utenti si sono abituati a guardare sempre più pagine, e ciò ha portato gli editori a pubblicare sempre più impression. Man mano che il numero di impression diventa infinito, il valore delle impression si avvicina a zero.
Per gli editori questo significa che per anni i ricavi da advertising si sono inevitabilmente ridotti. La reazione più ovvia è stata quella di incrementare il numero di impression per compensare la loro perdita di valore. Ci sono due modi per farlo: 1. aumentare il traffico e 2. pubblicare più advertising (sempre più intrusivo) sulle pagine. La prima strategia porta a creare contenuti sempre più teasing e sensazionalistici, in realtà raggiungibili dopo artificiose e infinite sequenze di click; inoltre questa logica richiede continui e disperati re-blogging di post puramente emotivi che, facendo leva solo sulla curiosità, hanno maggiore potenziale di traffico. La seconda strategia porta a pagine letteralmente intossicate di advertising e di comunicazioni pubblicitarie, sparate dritto in faccia.
Un terzo approccio è provare a vendere native advertising, ovvero pubblicità mascherata da contenuto. Pubblicando post che sono in realtà delle pubblicità, si evita di essere bloccati dagli ad-blocker, ma può confondere gli utenti se ciò che stanno leggendo è un contenuto indipendente o una pubblicità. Molti editori stanno adottando questo modello, amato dagli inserzionisti per ovvie ragioni. I lettori e gli utenti, tuttavia, trovano il native advertising noioso o poco interessante, in quanto fondalmente basato sulla menzogna.
La conseguenza finale relativa all’adozione di questi tre modelli di business di advertising corrisponde all’attuale Web di pagine intossicate di pubblicità, di sensazionalismo, con contenuti poveri e raggiungibili solo con sequenze labirintiche di navigazione.
Ci sono altre due strategie disponibili agli editori, ma non hanno funzionato nella gran parte dei casi. Una è quella di tirarsi fuori dalla mischia, offrendo contenuti premium a pagamento, in cerca di advertising di maggior valore, mirati a audience selezionate. Il che può funzionare, ma solo se l’editore ha veramente un pubblico selezionato disposto a pagare (come Techmeme) oppure se dispone di sufficienti volumi per convincere gli inserzionisti a considerare seriamente il proprio modello (come Vox Media).
L’altra strategia è di trovare una fonte di ricavo non legata all’advertising. VentureBeat, per esempio, sta sviluppando un modello basato su ricerche, vendendo report di alto livello alle aziende che sono disponibili a pagare per disporre di informazioni di valore. E’ una bella scommessa se si dispone di veri esperti al proprio interno e di una audience interessata. Non ha funzionato per GigaOm, che è fallita nel 2014, ma p.es. sempre VentureBeat sembra condurre diversamente le proprie operazioni.
Altri editori hanno sperimentato, con diversi gradi di successo, alcuni modelli legati ad altre soluzioni di pagamento diretto dell’utente: eventi o speciali a pagamento, micropagamenti, offerte libere a discrezione degli utenti o invito agli utenti a diventare microinvestitori e pagare piccole o piccolissime cifre per aiutare a supportare le pubblicazioni che apprezzano. Va detto che ci sono pochi, pochissimi esempi di questi modelli funzionanti, su varia scala.
Il fatto è che non c’è un vero e proprio dibattito se il blocco della pubblicità sia opportuno o meno. Sta arrivando, sia che agli inserzionisti e editori piaccia o no. Le forze economiche che governano l’advertising su Web ci hanno portato ad un punto in cui la pubblicità è fuori controllo e gli utenti non hanno altra scelta che prendere misure per proteggere se stessi e i propri Giga di connessione, consumati dall’adv.
Per editori che sono fortemente dipendenti dalla pubblicità, questo significa davvero un futuro molto incerto. E il punto è: riusciranno a evolvere in tempo il proprio modello di business?
(Articolo ripreso da Dylan Tweney – It’s the End of the Line for the Ad-Supported Web)
Vorrei farvi notare come clickando su questo link e aprendo il sito di VentureBeat, appaiano almeno due pop-up di adv; proprio quelle denigrate nell’articolo. La preoccupazione di Dylan Tweney forse è anche relativa alla propria situazione…
Alberto Pozzi, Web Manager, progetta e sviluppa soluzioni web e progetti digitali per aziende. Si occupa di strategia digitale, web project management, siti responsivi, social media, progetti SEO, eCommerce, content management.
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